Sono sempre stato attratto dalla plasticità dell’argilla fresca, da quella sua dinamica morbidezza dovuta ai segni del modellato. Dopo aver “dialogato” a lungo con questo materiale, per ogni artista arriva il momento di lasciare spazio all’essiccazione, in cui, l’argilla da duttile, diventa arida e ha bisogno di riposare fino al tempo della cottura, quando il fuoco la cristallizza traformandola per sempre in terracotta.
La cottura è un momento magico, quasi alchemico. Spesso dà molte soddisfazioni, specialmente quando attendo il risultato della colorazione ad ingobbio, ma non sempre è così. Ci sono volte in cui la terracotta appare aspra, appiattita e qui intervengo con una mano di cera d’api per quel tanto che basta a ridonare morbidezza e profondità all’opera, o – per dirla in termini fotografici – per aumentare il contrasto tra luce ed ombra.
Sto sperimentando la terracotta da quasi 20 anni: quando ero giovanssimo era il materiale più richiesto in bottega, anche perchè a Ragusa abbiamo importato la tradizione calatina, quella dei Bongiovanni-Vaccaro, o se vogliamo andare più indietro nel tempo e più distanti geograficamente possiamo pensare a Guido Mazzoni e ad Antonio Begarelli.
Ma il mio carattere saturnino mi ha portato spesso oltre la tradizione, nella continua ricerca di qualcosa di nuovo ed è così che ho incontrato l’ingobbio, con cui ho realizzato i progetti Golem People e Agorà, ma anche le opere di design più recenti.
Poi nel 2016, con l’inizio del progetto Kōmōdia (esposto in anteprima alle Vie dei Tesori e alla galleria XXS Aperto al Contemporaneo), ho deciso di affrontare un nuovo tipo di lavorazione e reinventare il mio segno distintivo, senza distaccarmi troppo da quello che è stato il mio percorso.
È nata da questa mia scelta una nuova scoperta: realizzare opere in grès semirefrattario combinato con altri materiali come il legno, la resina, la stoffa, il gesso. È così che ho creato Promethèus e Cine Labirinto.
Questa però non è stata solo una scelta di carattere tecnico-estetico ma di linguaggio. Se infatti l’arte è il linguaggio che usa ogni artista per raccontare se stesso e la sua visione del mondo, è solo con il linguaggio artistico che io trovo me stesso, quello che sono oggi. Creando opere con l’argilla trasformo il linguaggio dell’arte con i miei tratti personali, i miei tic, la mia storia e comunico con il mio segno distintivo quello che penso e che vivo.
Combinare materiali diversi tra loro, per esempio, per me vuol dire tradurre il mio desiderio di far convivere in un solo corpo i tanti personaggi che ho indossato (direbbe Battiato), quelli che hanno abitato e abitano in me e si rinnovano nel tempo. Forse questo tu potresti definirlo uno “specchio personale”, ma per me è anche lo specchio rovesciato della nostra società, che invece ha sempre più difficoltà ad accettare il diverso, che sia il migrante o la persona che la “pensa diversamente”.
Per fortuna Kōmōdia non racchiude solo questo mio desiderio: in questo progetto polimaterico ho riscoperto anche lo humor dei miei Golem People e in piccola parte anche di Agorà… Ma di questo aspetto parlerò in un altro articolo più in là. Nel frattempo fai un giro sul sito e… stay tuned.